Anche Facebook pensa a nascondere i Like. Ma è un’illusione: i ‘Mi piace’ finiscono sotto al tappeto

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Dopo i test di Instagram anche la piattaforma principale di Menlo Park potrebbe testare l’oscuramento del numero degli apprezzamenti, che rimarrebbe comunque visibile all’autore di un post. Perché è una falsa rivoluzione che gioca con la nostra psicologia 
DOPO i test di Instagramlanciati in alcuni Paesi a partire dal Canada e da luglio anche in Italia, pure Facebook ci starebbe pensando. A cosa? A nascondere il conteggio dei Like, il numero dei Mi piace sotto a ogni contenuto pubblicato in bacheca: testi, foto, video o altro. Sparirebbe la classica formula “Pippo e altri 54” di fianco alle reazioni possibili – come noto, da tre anni al pollicione si sono aggiunte altre faccette che esprimono rabbia, stupore, amore e così via – per lasciare qualcosa tipo “Piace a Pippo e ad altre persone”. Una formula generica, come accade ai piccoli test sull’applicazione gemella, che nell’ottica di Menlo Park dovrebbe disinnescare competizioni e invidie a suon di Like, spingere gli utenti meno attivi a non temere il confronto e a pubblicare comunque contenuti che potrebbero non incassare chissà quale gradimento da influencer. Ma che magari hanno senso di esistere per la loro espressività e creatività (oltre che per il tornaconto della piattaforma, sempre concentrata a sgonfiare il pubblico degli osservatori silenti). Per cercare di rendere i social, recuperando le parole di qualche tempo fa riferite a Instagram, “un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti Like ricevono
L’attenta ricercatrice Jane Manchun Wong ha infatti individuato, nel codice dell’app di Facebook per Android, una serie di istruzioni utili a mettere in atto, volendo, questa piccola rivoluzione. Il sito TechCrunch ha poi chiesto conferma al colosso californiano, che in effetti ha spiegato di aver avviato dei test anche se non direttamente sugli utenti. Insomma, solo a livello di progettazione dell’app. Proprio come su Instagram, anche su Facebook l’unico a poter ancora visualizzare il numero preciso delle reaction incassate sarebbe l’autore del post. A livello pubblico rimarrebbe tuttavia disponibile l’elenco degli utenti che hanno cliccato una qualche faccina, dal quale a dire il vero non sarebbe complicato capire se un contenuto abbia avuto o meno successo: basterebbe scrollare la lista.  
Così, invece di introdurre l’unica, vera rivoluzione che cambierebbe nel profondo la grammatica del social network – l’agognato e più volte richiesto pulsante Dislike o Non mi piace  –  Facebook tenta una complicata operazione ingegneristica di maquillage sociale. Far credere di aver eliminato il Like ma, di fatto, buttarlo sotto il tappeto. Alla piattaforma il bottone serve come l’aria perché, sebbene esistano decine di altre metriche e parametri, il Mi piace è la pietra angolare delle strategie con cui il sito ci sottopone la pubblicità. Pubblicità da cui ricava pressoché la totalità dei suoi guadagni. Senza sapere cosa ci piaccia, e senza che glielo diciamo noi disseminando i nostri apprezzamenti sulla piattaforma, Facebook dovrebbe davvero ripartire da zero. E anche se il numero totale dei Mi piace dovesse essere davvero nascosto sotto ai post di tutti gli utenti, non sparirebbe affatto: rimarrebbe lì, in un nuovo esperimento psicologico che dal punto di vista del modello di business dell’azienda non cambia una virgola. Quei dati non sarebbero più visibili all’audience ma resterebbero a disposizione non solo dell’autore ma anche del social.
La storia del pollicione è infatti piuttosto articolata e si lega a doppia mandata alle strategie di marketing degli anni Novanta nate nel mondo dell’advertising tradizionale. La “Like economy” di cui avevano parlato Carolin Gerlitz e Anne Helmond in un libro del 2013 e che Facebook ha costruito nel tempo è infatti radicata nel campo di studio sul piacere nell’ambito del marketing, inaugurato a sua volta ben prima dell’espansione del web per come l’abbiamo conosciuto in questi ultimi dieci anni.
Gli sviluppi dell’ultimo decennio confermano queste radici profonde: l’invenzione del tasto “Like” non si deve infatti a Facebook ma a FriendFeedun aggregatore che nacque nel 2007, tre anni dopo il social blu. Un paio di anni più tardi, nel 2009, venne acquistato da Mark Zuckerberg dopo l’acquisizione continuò a funzionare per sei anni senza alcun aggiornamento, fino alla definitiva chiusura nel 2015. La missione che doveva svolgere, infatti, era stata esaudita: a Facebook occorreva fondamentalmente una serie di tecnologie e invenzioni che erano state lanciate proprio su FriendFeed. Una di queste, oltre agli aggiornamenti in tempo reale della pagina, era proprio il bottone Like. Dopo un breve periodo di preparazione, il 9 febbraio 2009 – appena dieci anni fa a pensarci bene – il pulsante avrebbe infine esordito su Facebook. Autore del trasloco fu Justin Rosenstein, allora 26enne con un’esperienza da Google alle spalle che qualche anno dopo avrebbe fortemente presto le distanze dalle logiche sottese al Mi piace: nell’ottobre di due anni fa ha infatti rinunciato a usare il social in cui aveva lavorato, spiegando che “il tasto ‘Mi piacè di Facebook è una fonte di pseudopiacere. Tutti sono distratti, sempre”.
Spesso, nella percezione falsamente intimistica della bacheca, tendiamo a considerare il Mi piace come un affare fra noi e l’autore del post. Sono io che lo clicco, sarà lui che ci bada. Ed è su questa visione ristretta, giusta ma limitata, che i test di questo periodo condotti dal gigante intendono portarci. Tentando di avvalorare l’equazione per cui se non si vede più il numero dei Like di fatto è come se il Mi piace fosse sparito. Purtroppo non è (solo) così: il Mi piace è in realtà il primo e più importante sassolino che distribuiamo sulla piattaforma. Prova ne sia il fatto che, semplicemente accedendo alle Impostazioni, siamo in grado di ripercorrere all’indietro tutte le nostre azioni sul sito accedendo al “Registro attività”. Dove si ritrovano appunto anche i Like sparpagliati da sempre: una ragnatela di apprezzamenti. Volendo, pochi lo sanno, possiamo rimuoverli anche dopo molto tempo. O ancora, si pensa di frequente che i Mi piace siano del tutto gratuiti. Questo non è del tutto vero. Al netto delle agenzie specializzate che spesso navigano sul filo della legalità, i Like (per una o più Pagine che si curino) si possono acquistare tramite campagne pubblicitarie che chiunque può impostare attraverso la piattaforma dedicata del social. 
Insomma, il Like è per antonomasia la chiave della datificazione delle nostre vite e pensare che Facebook vi possa rinunciare con tanta facilità è un’illusione. Piuttosto, le sperimentazioni di questi mesi ci raccontano di un tentativo parecchio più scivoloso: nascondere il numero totale dei Like, per disinnescare le accuse di alimentare la dittatura dell’ottimismo o chissà quali altre depressioni e frustrazioni, non significa infatti eliminarli dal proprio Dna. Tutto il contrario: vuol dire invece riconoscere, e ammettere, la centralità di quell’elemento. Tanto da buttarlo sotto il tappeto.
Più coraggioso sarebbe affiancare finalmente al Mi piace un pulsante esattamente simmetrico, che faccia la stessa cosa e conceda al pubblico un potere espressivo uguale e contrario a quello del pollicione: il Non mi piace. Un passo ulteriore sarebbe tenere in considerazione l’equilibrio fra i due tipi di reazione ai post per stabilire la gerarchia attraverso la quale i contenuti vengono mostrati sulla bacheca degli utenti. Si pensi a un contenuto xenofobo o di odio del quale si mettono sempre in evidenza, con tono scandalizzato, le “migliaia di Like che ha ricevuto”: ma quanti sarebbero i Dislike, se fosse possibile cliccare un esplicito Non mi piace?
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