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ll mercato riparte ma vuole allentare la morsa Google-Fb

La pubblicità digitale torna a correre. Dopo un anno di pausa, il 2016, in cui gli investimenti in tutte le nuove forme di media digitali avevano visto la corsa fermarsi ad appena il 9%, quest’anno le stime dicono che si chiuderà con un più 12%, a quota 2,65 miliardi di euro. Corre nel mondo, dove, come negli Usa, approfitta del calo degli investimenti pubblicitari sulle tv e conquista la vetta della classifica dell’Ads spending, Ma corre anche in Italia, dove il mercato sembra essersi stabilizzato e gli investimenti pubblicitari sulle televisioni hanno perfino dato il segno di una lieve risalita. A crescere di più, anche da noi, come dicono i dati presentati pochi giorni fa a Milano da Iab Forum, l’associazione della pubblicità digitale italiana, e dall’Osservatorio Internet del Politecnico di Milano, sono ancora le componenti più nuove e dinamiche: il video, la programmatica (ossia la pubblicità che “si cerca” i suoi target selezionando i contenuti), i motori di ricerca, la nativa (forme di sponsorizzazione evoluta e interattiva). La pubblicità digitale è insomma entrata ormai nell’età adulta, i volumi di risorse che attira e impegna, specie da parte dei grandi marchi, non sono più episodici. E questo vuol dire che il settore non può più permettersi di sottovalutare alcune scorie negative che la corsa rapidissima degli ultimi anni aveva messo da parte. Due soprattutto. L’incontrollabilità degli algoritmi e la concentrazione del mercato. Nelle scorse settimane si è verificata una nuova fiammata di polemiche per la presenza di alcuni grandi brand mondiali (e grandi investitori) su siti dai contenuti assolutamente inappropriati.

Quando l’inappropriatezza raggiunge la pornografia, peggio ancora con la presenza di minori, scatta una immediata censura, comunque ex post e quindi tardiva. Ma il tema resta anche quando i contenuti non sono così chiaramente condannabili e c’è solo un problema di inadeguatezza rispetto alle strategie di immagine dei grandi marchi. In primavera un primo caso aveva riguardato siti o video con commenti antisemiti o favorevoli al terrorismo. In entrambi i casi le vicende hanno provocato una levata di scudi da parte di marchi come Adidas, Deutsche Bank, Mars, LIdl, come riportato dal quotidiano inglese The Guardian, ma anche da parte di grandi agenzie di pubblicità, come la francese Havas, tra le top 5 mondiali del settore, e di recente fusasi dentro la Vivendi di Vincent Bolloré. Anche adesso, come la scorsa primavera, si sono susseguite la rassicurazioni da parte dei vertici di YouTube, della sua controllante Google e da parte di Facebook, di voler moltiplicare i controlli. Ma la diffidenza non viene meno. E questo porta dritto al secondo problema. Quello di un mercato ormai troppo concentrato: un vero e proprio duopolio ormai. L’84% della pubblicità digitale mondiale è controllata da Google e Facebook, secondo una stima elaborata dal numero uno mondiale della pubblicità, il gruppo Wpp. Il messaggio è chiaro. Se nei primi anni del boom della pubblicità digitale la crescita era andata a scapito dei media tradizionali, la stampa prima di tutto, ma poi anche quello che sembrava il grande e imbattibile moloch delle tv, adesso invece è tutto cambiato. A fare le spese della crescita dei ricavi pubblicitari di Google e Facebook sono soprattutto gli altri media digitali: portali e app, agenzie e aggregatori di contenuti. Non è un caso che l’intero settore abbia sentito il bisogno di trovare un ambito di confronto. Si chiama “Coalition for better Ads”, l’alleanza per la buona pubblicità, in sostanza. Ci sono dentro tutti, perfino Google e Facebook. Ma la novità è che sono a un tavolo “virtuale” assieme ai grandi editori, come Springer e Murdoch, ai big del software, come Microsoft, alle grandi agenzie pubblicitarie, appunto, come Wpp, Publicis o Havas. E assieme a tutti i maggiori Iab: quello Usa e quello europeo. «Cresce l’esigenza che la pubblicità digitale sia in grado di instaurare un rapporto positivo con gli utenti dei suoi contenuti –spiega Carlo Noseda, presidente di Iab Italia E questo vuol dire mettere a punto assieme, tra tutti i protagonisti del settore, regole di rispetto e comportamenti improntati alla ricerca della massima trasparenza. D’alta parte- continua Noseda – Proprio le dimensioni che abbiamo raggiunto ci affidano nuove responsabilità, soprattutto verso la generazione dei new millennials, giovani che si formano in un ambito completamente digitalizzato e che saranno gli utenti dei grandi marchi e di tutti gli investitori pubblicitari di domani. Sta a noi far sì che il rapporto tra questi giovani e i media sia un rapporto di massima fiducia. E per questo serve la massima trasparenza». E’ per questa esigenza di comprendere che quest’anno Iab Italia ha realizzato assieme ad Ey una ricerca con il compito di definire meglio i confini del digitale italiano. E ne è venuto fuori un quadro, presentato durante la due gironi milanese di Iab Forum, impressionante per dimensioni: «L’economia digitale italiana vale 58 miliardi se mettiamo assieme tutto, dalla pubblicità online fino all’e-commerce, alle tecnologie e ai servizi professionali – spiega Noseda – E genera anche posti di lavoro: solo nel 2017 solo oltre 30 mila posti in più, che portano il totale a 253 mila unità. E il trend è positivo: i posti sono cresciuti del 15%, quindi ad una velocità superiore a quella della crescita dei ricavi». Ed è infatti questa la tendenza più recente emersa sul mercato: la necessità di soggetti in grado di offrire strategie di comunicazione sull’intero ventaglio dei media digitali calibrate in base alle effettive esigenze degli investitori, che sappiano calibrare tutti i vari fattori in gioco, compresa la scelta dei contesti (visto il rischio di affidarsi ai soli algoritmi) e anche la tipologia di inserimento dei messaggi pubblicitari. Necessità quest’ultima dettata anche da un dato di fatto: la diffusione dei sistemi di Ad Block, che bloccano cioè i messaggi pubblicitari sugli schermi degli utenti. E’ un fenomeno che riguarda solo gli utenti dei media collegati alla rete fissa, tipicamente pc e tv connesse, e soprattutto gli utenti di Chrome, il browser di Google, che sul mercato Usa ha una quota del 60%. E’ un fenomeno che al momento non sembra toccare le app dei dispositivi mobili, smartphone e tablet. Ma questo è un ulteriore problema perché il piccolo schermo dei telefoni non è dei più adatti per uno sviluppo completo dell’offerta pubblicitaria. I cui ricavi crescono, ma a velocità più bassa rispetto alla crescita del traffico dati degli utenti.