Instagram, più pubblicità nelle Storie: via ai test

Il social sta sperimentando, su un ristretto numero di utenti, l’erogazione consecutiva di annunci di due diversi brand

Instagram sta testando un aumento del carico pubblicitario sulle sue Storie.

Lo scorso mese vari professionisti del marketing avevano notato un sensibile aumento degli annunci sul social network fotografico, arrivati a costituire circa un quarto dei post e delle Storie presenti su di esso. Osservazioni che ora sono state confermate da Instagram stessa, che, ha dichiarato di avere in effetti avviato dei test per rendere più numerose le campagne mostrate sulla piattaforma.

Secondo quanto riporta AdWeek, Instagram starebbe in particolare sperimentando l’erogazione consecutiva nelle Storie di annunci di due diversi brand, uno dopo l’altro. Al momento l’esperimento è visibile solo a un ristretto numero di utenti, ma tutti gli inserzionisti sono potenzialmente qualificati a partecipare.

Un portavoce di Facebook ha dichiarato che l’obiettivo dei test è verificare se questi annunci consecutivi di diversi brand nelle Storie forniscano agli utenti un’esperienza più fluida, e raccogliere feedback. Ha inoltre aggiunto che il focus della società rimane la user experience, con la produzione di valore per gli inserzionisti come seconda priorità.

Fonte: Engage.it

La comunicazione in azienda diventa diffusa. Ecco gli strumenti a disposizione

Un pasticcere veneto ha deciso di raggiungere in tempo reale la sua forza vendita distribuita in ogni angolo del mondo, dal Giappone all’America. E l’ha fatto grazie a centinaia di video caricati su YouTube. Dallo storico laboratorio artigianale fondato nel 1938 a Costabissara, settemila anime nell’hinterland vicentino, Dario Loison comunica i prodotti in fase di lancio, le tendenze del mercato, i valori dell’azienda. La sua impresa conta 30 dipendenti in Italia, altrettanti nel mondo, fattura quasi 10 milioni di euro e vende in 50 Paesi. Ed è nella comunicazione interna la ricetta vincente per imporsi sui mercati internazionali. Digitale, inclusiva, ibrida, protesa tra online e offline. Ecco la nuova comunicazione interna distribuita che ridisegna processi, organigrammi, persino business. Trasformando i collaboratori in ambasciatori del brand, mutuando quel concetto di potere editoriale diffuso che oggi consente a ciascuno di comunicare con la propria community.

A certificarlo è la ricerca The Communicative Organization, promossa dall’Università di Lund con la Swedish Communication Association. Lo studio ha coinvolto 8.100 rispondenti di undici aziende svedesi. La comunicazione interna come fattore di successo: lo sostiene il 90% degli intervistati. Mentre per l’80% il lavoro dei comunicatori contribuisce a rendere funzionali le organizzazioni. Ma, attenzione! Solo il 35% degli intervistati ritiene che il compito dei comunicatori sia chiaro. «Oggi la comunicazione interna contribuisce a creare processi di orgoglio, lealtà, impegno e apprendimento all’interno dell’organizzazione», afferma Charlotte Simonsson, senior lecturer in Strategic Communication alla Lund University. Si moltiplicano canali disintermediati, multimediali, istantanei. Dalle chat di instant messaging – WhatsApp Business, Slack, Yammer – ai social interni, come Facebook Workplace. «Sempre più manager percepiscono il valore nella comunicazione interna, ma l’attenzione si concentra ancora sulla diffusione delle informazioni piuttosto che sulla creazione di dialoghi e sul miglioramento dell’ascolto di voci diverse nell’organizzazione. Se vogliamo utilizzare con successo i social media interni dobbiamo non solo introdurre nuove tecnologie, ma cambiare la cultura organizzativa. E tutto ciò richiede tempo», precisa Simonsson.

Così la chiave è nell’ascolto. «La comunicazione oggi non è più una funzione aggiuntiva opzionale per un’organizzazione, ma una componente essenziale e connessa al raggiungimento degli obiettivi», afferma Alessandra Mazzei, direttore del Cerc, Centre for Employee Relations and Communication dell’Università Iulm, un centro di ricerca in partnership con quindici aziende. «Oggi tutti siamo comunicatori in un’azienda e la comunicazione interna è solo in piccola misura quella veicolata dai canali ufficiali. La larga parte è messa in atto dalle persone. Oggi un’azienda comunica attraverso i volti, le parole, le azioni, i messaggi dei suoi collaboratori. Il suggerimento è puntare sulla social media wisdom, ovvero su quella competenza fatta di conoscenza dei social unita alla sensibilità per saper valutare le implicazioni delle proprie esternazioni e sostenuta dall’engagement», precisa Mazzei.

La comunicazione diffusa è uno degli ingredienti delle organizzazioni agili. Ne è convinto Eric-Axel Zimmer, co-fondatore di Fabric, società francese di consulenza che da tempo promuove per i manager tour nelle imprese agili. «L’era di Internet ha fatto emergere un nuovo modo di vedere il mondo che contempla la possibilità di una intelligenza diffusa e distribuita al posto di una gerarchia top-down. Grazie agli strumenti digitali che consentono di lavorare in rete, le persone in diverse parti delle organizzazioni agili, con autonomia e responsabilità, sono in grado di fare quello che c’è da fare in modo più efficiente», afferma Zimmer. Ma l’agilityimplica una trasformazione culturale e richiede coraggio. Perché comporta la rinuncia all’autorità e implica l’opzione dell’errore. Così, anche se pervasiva, la comunicazione interna diventa trasformativa quando il vertice ne coglie il valore. Precisa Simonsson: «Un’azienda dovrebbe pensare meno a controllare e più a facilitare la comunicazione dei dipendenti. Un ruolo importante, anche simbolico, è nei top manager».

Fonte: Il Sole 24 Ore

In pubblicità le ultime impressioni contano per catturare l’attenzione

Mentre tutti riconoscono l’importanza di coinvolgere sin dalle prime scene, una ricerca Ipsos evidenzia che una risposta emozionale positiva alla fine della comunicazione è rilevante per garantire il ricordo di marca

Le prime impressioni contano

In un contesto di comunicazione ad affollamento crescente, il tempo a disposizione per raccontare la marca è poco ed in contrazione: molte strategie di comunicazione sono volte ad attirare l’attenzione dello spettatore nei primissimi secondi, spesso attraverso visual d’impatto ed elementi iconici che riattivano il ricordo di marca. Ma è veramente sufficiente scommettere sui primi secondi per generare ricordo ed impatto sulla marca?

E le ultime impressioni?

Le evidenze dalla psicologia cognitiva suggeriscono che i nostri ricordi sono più spesso guidati da come termina un’esperienza piuttosto che da come inizia (Kahneman, Daniel; Fredrickson, Barbara L.; Schreiber, Charles A.; Redelmeier, Donald A. – 1993. “When More Pain Is Preferred to Less: Adding a Better End”. Psychological Science. 4).

Come ricercatori in ambito di comunicazione, ci siamo quindi chiesti come le ultime impressioni influiscano sul ricordo di comunicazione e sugli effetti che da esso scaturiscono.

Cosa abbiamo fatto

Abbiamo selezionato 734 pubblicità video che sono state valutate tramite ASI:Connect, la nostra soluzione di pre-test validata che consente di misurare il potenziale di ricordo della comunicazione e la sua capacità di generare desiderio nei confronti della marca.

La pubblicità è stata somministrata all’interno di un contesto multimediale con l’obiettivo di attivare un processo di attenzione selettiva, evitando che i consumatori si focalizzassero esclusivamente sulla pubblicità in test.

Nella fase di esposizione è stato inoltre rilevato il portato emotivo della creatività scena per scena, attraverso la registrazione passiva e codifica delle espressioni facciali (Facial Coding) secondo il sistema sviluppato dallo psicologo Paul Ekman.

Successivamente all’esposizione, sono stati misurati il ricordo della comunicazione e la sua associazione alla marca e le pubblicità sono state classificate in quintili, sulla base della loro efficacia nel creare ricordo brandizzato.

È stata quindi analizzata la risposta emozionale delle comunicazioni in ciascun quintile, per capire se gli spot con un forte potenziale attenzionale differiscano in termini di coinvolgimento emotivo rispetto a quelli meno memorabili.

Cosa abbiamo imparato: una conclusione performante del video è il ‘carburante’ della memorabilità

Abbiamo infatti osservato che le pubblicità video di lunghezza di circa 30 secondi mostrano una risposta simile nei primi 15 secondi, qualsiasi sia il loro potenziale di attenzione brandizzata.
Tuttavia, dopo 15 secondi, le pubblicità ad alto impatto attenzionale mostrano un trend di risposta emozionale positiva più elevato, evidenziando un aumento più marcato nel tempo fino alla fine.

 

Emozioni positive medie evocate per percentile di attenzione brandizzata (copy 30-32sec)

Emozioni positive medie evocate per percentile di attenzione brandizzata (copy 30-32sec)

Questo pattern di risposta suggerisce che le emozioni evocate nella parte finale delle pubblicità hanno un ruolo nel determinare l’efficacia dei filmati stessi nell’essere ricordati.

Cosa significa questo?

L’andamento della risposta emozionale per le pubblicità con alto e basso ricordo brandizzato suggerisce che un “secondo atto” efficace massimizza l’opportunità di un copy di essere ricordato.

Un picco emozionale, una conclusione di una storia impattante, una risoluzione ingaggiante sembrano essere particolarmente utili nell’alimentare la memoria, creando attenzione per la marca.

Questo non significa che le prime impressioni non contino

È chiaro che – soprattutto nei contenuti skippable e scroll – un video debba necessariamente riuscire ad agganciare l’audience nei primissimi secondi. Sembra tuttavia, che il “secondo atto” non possa essere ignorato e una volta catturata l’attenzione iniziale, la parte conclusiva abbia un ruolo almeno altrettanto importante nel generare ricordo per la marca.

Fonte: Engage.it

Google ci riprova con i social network: lancia Shoelace

Obiettivo: far incontrare persone che abitano vicino sulla base di interessi comuni e a disconnettersi. Funzionerà la piattaforma delle relazioni offline?

Shoelace. Il nuovo social network che Google sta testando a New York (fonte: Google)

Dopo il fallimento di Google+, Big G non ha resistito alla tentazione di creare un nuovo social network. Si chiama Shoelace la nuova piattaforma in fase di lancio, che consentirà ai suoi utenti di entrare in contatto con persone geograficamente vicine e con cui condividono gli stessi interessi.

Nato dalle menti del team di lavoro per prodotti sperimentali di Google,Area 120, il social network ora è disponibile sotto forma di applicazione e, per il momento, è nella sola area metropolitana di New York.

L’applicazione, rilasciata nelle versioni Android e iOS, è caratterizzata da un’interfaccia che fa largo uso di emoji ed è progettata per consentire all’utente di selezionare i propri interessi e trovare chi li condivide nelle vicinanze.

In fase di test un team di ingegneri in carne e ossa gestirà il social network, suggerendo personalmente agli utenti le attività in zona affini con i loro interessi e verificando le richieste per entrare nella community inviate dai nuovi utenti.

Non bisogna aspettarsi però grandi interazioni digitali con questo nuovo social network visto che l’obiettivo di Google è quello di indurre gli utenti a fare più attività offline e disconnessi dalla rete.

La premessa per Shoelace è di allacciare tra loro le persone sulla base dei loro interessi, come due lacci in una scarpa. Lo facciamo attraverso attività che opportunamente chiamiamo Loop”, spiega Google. Shoelace è attualmente in fase di test e bisognerà aspettare per scoprire se diventerà pubblico o verrà inserito nell’elenco dei fallimenti di Big G.

Fonte: Wired.it

Pubblicità tracciante: la tecnologia Apple per proteggere la privacy

La Coalition for Better Ads è la coalizione nata qualche anno fa dall’alleanza di aziende e associazioni internazionali che operano nel mondo dei media online. L’obiettivo dell’alleanza è migliorare il rapporto tra l’esperienza d’uso dei siti e le pubblicità online. La Coalition ha rilasciato alcuni dati sull’advertising online. Secondo lo studio, 6 formati pubblicitari per desktop (tra cui pop-up, video che si avviano automaticamente con audio attivo, etc.) e 12 per mobile (come pop-up, video a tutto schermo, sticker ads, etc.) sono percepiti come invasivi e quindi ritenuti responsabili del peggioramento dell’esperienza utente. Gli utenti per evitarli si affidano a diversi tipi di ad-blocking.

Spesso gli annunci, non solo sono troppo persistenti, ma invadono la privacy degli utenti, sottraendo informazioni sensibili sui loro movimenti online, attraverso siti web e inserzioni pubblicitarie di ogni tipo. Lo studio ha analizzato le preferenze di circa 25.000 utenti di diversi mercati, nello specifico Stati Uniti ed Europa, in relazione alla fruizione di contenuti da desktop e mobile.

Questa attività ha permesso alla Coalition di tracciare quanto disagio e invasione della privacy provocano le pubblicità. Questo problema affligge sempre di più la user experience, e sono tante le aziende e case produttrici che si sono mosse per limitarne i danni e garantire all’utente una navigazione spedita e sicura. Tra queste c’è anche Apple, che ha escogitato un metodo capace di accontentare utenti e inserzionisti: il Privacy Preserving Ad Click Attribution.

Le pubblicità invadenti: come funzionano?

L’utente che naviga online, incappa in tanti tipi di annunci pubblicitari: quelli presenti nelle SERP dei motori di ricerca, finestre pop-up, video, banner e tanti altri. Questi metodi permettono alle aziende di promuovere i propri prodotti o servizi sul web. Ogni volta che un utente clicca su un annuncio online, questa azione viene registrata dal sistema che tiene traccia degli spostamenti tra le pagine dentro e fuori il sito web.Ogni pubblicità online ha quindi dei veri e propri tracciatori invisibili, che seguono l’utente nel percorso eseguito online.

Grazie alla loro capacità di seguire l’utente, riescono a creare un profilo delle sue abitudini online, in modo da sapere dove fa clic o meno, i suoi interessi, gli acquisti fatti online oppure quando ha messo dei prodotti nel carrello, e così via. Insomma, gli inserzionisti possono conoscere le mosse degli utenti, e questi ultimi spesso forniscono tali informazioni in modo inconsapevole.

La soluzione di Apple

Apple vuole tutelare l’utenza e lo ha ribadito all’interno del suo blog ufficiale nei giorni scorsi. Per farlo ha inventato l’attribuzione di clic sull’annuncio della privacy. Secondo Apple, non hai bisogno di condividere con nessun altro che hai comprato qualcosa online. Gli inserzionisti dovrebbero solo sapere che qualcuno – non una specifica persona – ha fatto clic su un annuncio di un sito web, magari acquistando poi qualcosa dalla stessa piattaforma. La nuova tecnologia può aiutare così a preservare la privacy degli utenti senza ridurre l’efficacia delle campagne pubblicitarie. Questa tecnologia chiamata Privacy Preserving Ad Click Attribution sarà presto disponibile su Safari.

Come funzionerà la tecnologia Apple per “limitare” la pubblicità online?

John Wilander, ingegnere Webkit, ha presentato la tecnologia sottolineando quali sono i limiti che ogni inserzionista dovrebbe porsi per non invadere la privacy degli utenti. Per esempio, è importante che un sito web non sappia quali sono le mosse dell’utente quando esce dalle sue pagine ed entra in un’altra piattaforma. Un altro dato importante è che gli utenti non dovrebbero essere identificati in modo univoco.

Con questo metodo, Apple vuole quindi limitare la portata di cookie e tracking pixel. Queste tecnologie invadono la privacy, creando un profilo utente in cui si trova il percorso fatto online, dal primo clic fino alla conversione. Il team di Webkit chiama questo metodo cross-site tracking, e ammette che grazie a Safari finalmente si potrà superare. Tutto grazie alla tecnologia Intelligent Tracking Prevention (ITP) applicata praticamente al Privacy Preserving Ad Click Attribution.

Parliamo di un metodo all’avanguardia per tracciare gli annunci venendo incontro agli utenti. La tecnologia per funzionare ha bisogno di tre passaggi. Il primo riguarda l’archiviazione di clic sugli annunci, fatto dalla pagina che ospita l’inserzione pubblicitaria. Il secondo se i clic sull’annuncio corrispondono poi a conversioni sul sito. L’ultimo passaggio è eseguito dal browser che invia i dati all’inserzionista, ed in particolare lo informa se al clic sull’annuncio corrisponde anche la conversione.

Non si sa ancora bene come la tecnologia verrà messa in pratica e soprattutto quando verrà lanciata. Apple però si augura che gli utenti la apprezzeranno e sfrutteranno per incrementare il loro livello di privacy e sicurezza.

Fonte: Fastweb

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